La discesa negli abissi di Arthur Fleck: Joker è il film dell’anno

Joker è la discesa nelle tenebre della psiche umana. Di una persona malata, sola, abbandonata. Alla ricerca costante di aiuto, sempre negato. Che si ribella

“Riguarda solo me… o stiamo tutti impazzendo?”

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GIUDIZIO 10/10

Svariati piani di lettura, l’estremo realismo del protagonista che terrorizza lo spettatore, un’opera tecnica completa: l’analisi di Joker, il capolavoro di Todd Phillips che è già icona

C’è da aver sofferto, in qualsiasi forma, per apprezzare a pieno questo film. E chi di noi non l’ha fatto. Una pellicola impregnata di tristezza, solitudine, comprensione, violenza e rabbia, dal primo all’ultimo fotogramma. Joker è una discesa nelle tenebre della psiche umana. Di una persona malata, sola, abbandonata. Alla ricerca costante di aiuto, che se lo vede però sempre negato. E che per questo riuscirà a trovare il proprio vero io.

Todd Phillips si stacca definitivamente dalle sue tre “Una notte da leoni” e crea un (il) viaggio nel profondo dell’animo umano che scava a fondo ma che, invece di estirpare i mali, innesta una germogliazione completa degli stessi. Sfociando in una sorta di lucida follia. In quella che è la nascita di uno dei villain più affascinanti della storia del cinema. Un autentico capolavoro che si discosta però prepotentemente dai suoi “antenati” per la sua identificazione plausibile nel mondo reale. All’uscita dalla sala la sensazione è che questo Joker possa veramente essere chiunque di noi (non a caso negli States ci sono stati timori di gesti sconsiderati in occasione delle proiezioni).

"Put on a happy face"
“Put on a happy face”

Il primo doveroso elogio è, manco a dirlo e banalmente, la performance di Joaquin Phoenix. Una lectio magistralis sulla recitazione. Spaventosamente profonda e veritiera. Che nulla ha a che vedere con i Joker del passato (assurdi i paragoni con gli ex clown e le loro performance, come quella superba di Heath Ledger, anche perché, al di là del parere soggettivo, mai era capitato che Joker fosse l’assoluto protagonista di un film, per di più così introspettivo). Un artista fisicamente ridottosi all’osso per immedesimarsi ancor di più nel personaggio e che è riuscito a perdere 24 kg per avvicinarsi alla condizione del suo character.

Arthur Fleck, dopo le prime uccisioni, è ormai nel pieno della sua trasformazioni
Arthur Fleck, dopo le prime uccisioni, è ormai nel pieno della sua trasformazioni

Una condizione prima di tutto psicologica, fatta a materia e così tangibile grazie a Phoenix. Un cammino lento, graduale, nelle tenebre, che comincia da uno specchio. Già dalla prima scena la maschera del proprio io è davanti ai nostri occhi. Un primo piano di lettura del film che porterà poco per volta alla rimozione di ogni trucco, alla nascita del male, per il quale però si prova sin da subito compassione e di cui si comprende ogni gesto, anche i più brutali. Non legittimandoli, certo, ma finendo con l’accettarli. Come la prima serie di omicidi commessi da Arthur, in metropolitana. Per legittima difesa prima, per rabbia e vendetta poi, con l’inseguimento del fuggitivo scampato alla prima sparatoria. Una scelta, questa. “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziano a notarlo“. Con i primi omicidi Arthur assume piena consapevolezza di sé e si sente meglio: con quel ballo in un bagno pubblico, una danza che è caratteristica affascinante e che è momento di benessere e distacco dai problemi e dalla tristezza, il pagliaccio, uomo fallito nella vita, si solleva dal suolo, scarica il peso del dolore. E la sua condizione di miglioramento si traduce in un peggioramento della “società”.

Perché “la cosa peggiore della malattia mentale è che tutti si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi“. Questo racconta Arthur. Trascinandoci così nella condizione di disagio del diverso, del reietto di una società incapace di ascoltare. Stronza e marcia. Maltrattato, picchiato, ignorato, preso in giro. Passo dopo passo si comprendono le scelte di gesti non condivisibili ma comprensibili per via delle costanti richieste di aiuto inascoltate. L’abbandono è la condizione intrinseca in Arthur (che poi si scoprirà essere stato adottato, proprio perché abbandonato). Una condizione che porta Arthur a scoprire il proprio io. E quando questo accadrà la sua risata, che fa da colonna sonora alle scene di gran parte del film, svanirà.

Un tratto distintivo inquietante, questa risata: frutto di una patologia che costringe il ragazzo a ridere senza freni, ogni volta che la tensione sale, che il nervosismo cresce. Un suono così finto e vero allo stesso tempo, che sale dal profondo. Incontrollabile. Da brividi nel modo così semplice ma esplosivo in cui Phoenix la interpreta: stringendosi la gola, con gli occhi tristi, provando a strozzare quel suono che non gli appartiene. Quel gesto che non corrisponde al proprio stato d’animo. Ingabbiato, inerme. Una risata che è l’esatto opposto della felicità, nulla di più distante, di più in antitesi (per prepararsi l’attore ha studiato video di persone affette da un male neurologico noto come Pseudobulbar Affect). E in un semplice gesto c’è tantissimo. Come la voglia di chiedere scusa a chi assiste allo “spettacolo” isterico. Motivo per il quale Arthur porta con sé dei biglietti di scuse. E qui, i più affezionati a Batman, avranno sicuramente notato un legame profondo con il Joker del passato, che su ogni scena del crimine lascia una carta come autografo del misfatto…

Arthur in autobus per la prima volta mostra il suo “biglietto di scuse”

Un tratto che però svanisce quando appunto il protagonista tocca il fondo del suo abisso. In una delle scene più agghiaccianti: il ritorno a casa, nell’appartamento di Sophie, ragazza con il quale fino a quel momento crediamo tutti abbia una relazione. Lo schiaffo con la realtà è micidiale: la giovane madre è terrorizzata, lo tratta come un estraneo e lo spettatore capisce che fino a quel momento ha vissuto lo stesso sogno del “clown”. Una costante degenerazione della malattia che porta alla completa trasformazione. Perché su quel divano Arthur si punta due dita alla tempia e spara. Mette fine a quella vita. Consapevole della fantasia vissuta fino a quel momento e di un desiderio di cambiamento inevitabile. Follia razionale che scaturisce anche dal tradimento della madre, cardine della sua vita, rea di aver raccontato sempre menzogne al figlio (senza addentrarci nel legame con Wayne…).

Ecco il via definitivo alla mutazione: una metamorfosi che si attuerà completamente durante lo show di Murray Franklin, personificazione perfetta di una società che si prende gioco degli ultimi. In quel momento la scritta sul diario dell’uomo “sperare che la morte dia un senso alla vita” cambia, così come il destinatario del proiettile inizialmente indirizzato, nelle intenzioni del protagonista, a sé stesso per un suicidio spettacolare.

Si comprende ogni aspetto dello stato di Arthur proprio per questo. Per la situazione difficile con il mondo con cui il ragazzo deve combattere ogni giorno. E qui entra in gioco l’ennesimo piano di lettura: la politica. Perché in un certo senso Joker stravolge la società, dà alle fiamme Gotham e nel finale del film è il simbolo di una ribellione di massa. Ma è la stessa società ad aver alimentato questo fuoco. Togliendo le risorse per curare i più bisognosi (“E dove prenderò ora le mie medicine”, chiede a un certo punto Arthur alla psicologa che gli comunica l’interruzione delle sedute per “tagli ai fondi”. “A loro non interessa nulla di quelli come me e te”, risponderà lei all’ennesima richiesta di ascolto di un Arthur frastornato e sempre più vicino all’abisso). La politica è genitrice di questo male, responsabile diretto con le proprie scelte della creazione di ciò che la distruggerà. Il padre di Batman è con le sue scelte artefice della creazione dell’antagonista storico del figlio. E della sua morte. Il prodotto di una società che è destinata a ribellarsi non in maniera pacifica, ma praticando il male in misura contraria a quella ricevuta. Prendendosi i riflettori, dannatamente ricercati per tutta la vita.

Lo studio dei colori nella pellicola è eccezionale
Lo studio dei colori nella pellicola è eccezionale

Un capolavoro totale, elevato a perfezione grazie a una colonna sonora unica e alla fotografia. I colori in questo film sono qualcosa di studiato al dettaglio, di travolgente, che rinvigoriscono gli stati d’animo delle varie scene. Accesi, felici, che però hanno addosso una patina di tristezza. Stampati in un contesto di depressione. In un gioco di maschere che torna costantemente, e in cui quel vestito giallo senape e rosso si schianta sulla pupilla con tutta la sua prepotenza. Così come quel sorriso, disegnato sulle guance nel finale con il sangue. Rossissimo. Luoghi claustrofobici (dai bagni alla scena in cui Arthur si chiude nel frigorifero: geniale), una ambientazione anni ’80 e omaggi a tanti film del passato: sembra veramente tutto perfetto per la corsa agli Oscar.

Non resta che “mettersi addosso una faccia felice”. E rivedere questa meraviglia. Che ci lascia basiti. Che crea dipendenza e desiderio di sapere altro su questa meravigliosa storia. Di sofferenza. Di dolore. Di abbandono e rinascita.

Luca Feole (@palahliuk)