Michael Collins se ne è andato. Lassù, verrebbe da dire. E io ho pensato subito a Pieno Giorno, che è a mani basse uno dei migliori libri che abbia mai letto. E in Pieno Giorno c’è pure Mike. E fa pensare: lui, lì, a un passo dalla Luna, senza compierlo mai davvero quel dannato passo.
Innamorarsi della luna
Qualche ora fa è morto Michael Collins, l’uomo che, insieme a Neil Armstrong e Buzz Aldrin, era parte del trio della missione spaziale Apollo 11 del 1969.
In “Pieno Giorno” (uno dei miei libri preferiti in assoluto, che ve lo dico a fa’), Moehringer piazza la storia di Collins qua e là, con qualche concetto che gravita (eheh..) attorno alla sua figura: il sacrificio, la libertà (quando parla pensando al carcere) e, soprattutto, la solitudine. Un pensiero esasperato in chi come lui si era trovato senza nessuno nello spazio. Collins scrisse: “Ero solo, assolutamente solo, e completamente isolato da qualsiasi altra forma di vita conosciuta. Se si fosse fatto un conteggio, il risultato sarebbe stato 3 miliardi più due dall’altra parte della Luna, e uno più Dio da questo lato”.
La storia di Collins è pazzesca. Affascinante sotto mille punti di vista. È il viaggio in mille forme. Tangibili e non. È la storia anche di Sutton, nel libro, di chi guardava da dietro le sbarre pensando “alla Luna come ultima possibilità di fuga del genere umano”. E mi ha sempre fatto riflettere un sacco…
“Tutti a inneggiare ad Armstrong e Aldrin, dice Sutton. Ma il vero eroe della missione lunare è stato il terzo uomo, Mike Collins, l’irlandese sul sedile dietro.
Ma se non ci ha neanche messo piede, sulla Luna.
Esatto. Collins era sulla capsula spaziale, tutto solo. Mentre i suoi compagni erano giù a raccattare pietre, Collins era al volante. Ha girato intorno alla Luna per ventisei volte, da solo. Provate a pensarci. Nessun contatto radio. Non poteva comunicare con i suoi compagni. Non poteva comunicare con la NASA. Tagliato fuori dal resto dell’universo. Se fosse andato in panico, se avesse fatto casino, se avesse schiacciato il bottone sbagliato, avrebbe condannato Armstrong e Aldrin.
E se avessero sbagliato qualcosa loro, se la loro macchina lunare si fosse rotta, se non fossero riusciti a farla ripartire e a riconnettersi con la capsula di Collins, a settanta e passa chilometri sopra la Luna, lui avrebbe dovuto tornare sulla Terra da solo. Lasciando i suoi compagni lì a crepare, a rimanere piano piano senza ossigeno.
[…]
Ehi ragazzo – magari non lo sapevi, ma quando gli astronauti sono tornati sulla terra, Collins era messo male. Non riusciva a mangiare, non riusciva a dormire. In compenso si assopiva mentre parlava, a metà di una frase. Era come bloccato. A un certo punto ha detto ai dottori della NASA che dopo aver fissato la Luna per tutto quel tempo, dopo aver continuato a orbitarci intorno senza poterla mai toccare, se n’era disperatamente innamorato. Parole sue, non mie.
Innamorato della Luna – dico, ma ci pensi, ragazzo?
Ti immagini fino a che punto uno deve sentirsi solo e abbandonato, per arrivare a innamorarsi della luna?”…